mercoledì 13 ottobre 2010

WiFi Inside / 2

È successo una sera in treno, a causa di un libro mediocre e di un lungo ritardo. Contavo i lampioni dal finestrino, rileggevo con accorato interesse le modalità d'uso del martello rompivetro e calcolavo la somma delle cifre del numero di serie del mio biglietto. In altri termini, mi facevo due coglioni così. Poiché il viaggio si prospettava ancora lungo, decisi di fare un esperimento: se avessi chiuso e riaperto gli occhi, magari mi sarei trovato in tutt'altro luogo. (Tale era la mia disperazione.) Fissai la porta in fondo al vagone. Il manifesto pubblicitario ivi affisso prometteva magnifiche sorti e progressive di WiFi Inside. Molto bene. Chiusi gli occhi.

Immaginai un piccolo appartamento di Praga, una domenica mattina d'aprile. Fuori nevica ancora, ma a me importa poco perché sono seduto sul mio divano viola e mi riscaldo al fuoco del caminetto che crepita allegramente. Quanto mi piace l'odore pungente della legna umida che brucia. Din. Il forno a microonde mi chiama. La mia tazza di latte è calda, la porto davanti al caminetto con il resto della colazione: biscotti all'uva passa, frutta secca, persino un vasetto di Nutella. Non posso prendermela troppo comoda, però. Ho appuntamento tra una mezz'oretta con degli amici per andare a suonare e devo ancora farmi la doccia. Chissà dove ho messo la sciarpa. Ma come resistere alla Nutella!? Pieno di fiducia, riapro gli occhi.

WiFi Inside. Ciò mi spinse a due conclusioni. Uno, non ero a Praga. L'esperimento era fallito e non capivo perché (anche se sospettavo i biscotti — che razza di idea, da quando mi piace l'uva passa?!). Due, era proprio come se mi trovassi in uno stramaledetto treno in ritardo, con un pallosissimo poliziesco svedese da leggere e senz'altro da fare per passare il tempo che alcuni dubbi esperimenti di autoipnosi. Mi affascinò particolarmente il fatto che, nonostante l'infinità di combinazioni di colore e intensità possibili, i raggi luminosi che percepivo tracciassero infallibilmente sulle mie retine lo stesso misterioso geroglifico, come se all'altro capo del vagone esistesse davvero una scritta "WiFi Inside". Quel dannatissimo treno si ostinava a riproporsi alla mia percezione sempre identico, no matter quanto desiderassi vedere altro — eppure non riuscivo a convincermi che questo bastasse a dimostrarne l'esistenza.

E ancora oggi non riesco a concepire l'esistenza di quel treno come qualcosa di più di una comoda ipotesi di lavoro. Forse il treno sarebbe scomparso se avessi riprovato a chiudere gli occhi ancora una volta. Forse sarebbe scomparso se avessi fatto su, giù, su, giù, sinistra, destra, sinistra, destra, B, A. La riscoperta quotidiana della regolarità della percezione continua a generare in me un vago senso di stupore. O forse no, il treno non sarebbe scomparso perché esisteva davvero. Ma allora l'esistenza del treno coincide con la riproducibilità del suo esperire, ovvero con l'esistenza di leggi che ne regolano la fenomenologia. Se non esistessero le leggi della fisica, non potremmo sperimentare la Natura con regolarità e convincerci della sua esistenza. WiFi Inside, ergo philosophia naturalis.

WiFi Inside / 1

Non sono più tanto sicuro che l'Universo esista. Non parlo degli elettroni, dei potenziali vettori, del gruppo di rinormalizzazione, delle onde gravitazionali e via dicendo; una simpatica combriccola, nulla in contrario, ma non è perché abbiamo passato qualche ora piacevole insieme che esisti. [Note to self: una gibella sull'ontologia del gruppo di rinormalizzazione — ecco l'idea per tenere incatenati al monitor milioni di lettori!] Il mio problema è che non sono più sicuro dell'esistenza di questa tastiera, di questa stanza, della sedia che ho sotto il mio modestissimo culo, per servirvi. Sono un visionario? Sono i primi segni dell'Alzheimer? È senz'altro una forma di deformazione professionale. La Scienza sarà anche una gran figata, con tutti i suoi termini non lineari, spostamenti virtuali e Gedankenexperiment; ma mi ha giocato uno scherzetto malizioso.

Tutto cominciò con la storia dell'etere. Generazioni di scienziati furono sinceramente convinti della sua esistenza; e, si badi bene, si trattava di gente rispettabilissima, esimi scinziati com mogli e bambini, borghesissimi professori con i piedi per terra, tutti convinti che l'etere avesse la stessa concretezza della loro pomata per i baffi o dei loro pedalini. Poi due ammericani senzadio, Albert Michelson e Edward Morley, con quattro specchi e un occhio fino convinsero tutti che l'etere, se pure esisteva, doveva avere proprietà meccaniche radicalmente diverse dai budini Danone. Poiché quest'idea non piaceva a nessuno, poco a poco dell'etere non rimasero che un imbarazzante ricordo e qualche reliquia linguistica. Dalle pomate per i baffi al topolino dei denti nel giro di una notte.

Ero giovane quando mi hanno raccontato questa storia. Immaginavo le facce di tutti quei signori perbene mentre leggevano gli articoli di Michelson e Morley. "Ohibò, poffarbacco, sacrebleu", si dicevano strabuzzando gli occhi e aggrottando le folte sopracciglia. Ridevo di loro. Io, uomo del terzo millennio, so che l'etere è soltanto un'utile semplificazione del reale, so che la scienza è soltanto un modello, una macchina. Non bisogna prenderla troppo sul serio. Non so se l'uomo della strada dubita dell'esistenza di elettroni, potenziali vettori, ecc.1. Probabilmente se ne sbatte; ma se non dubita, dovrebbe. La macchina-scienza è un prodotto dell'umane menti e di quella di Ed Witten; e dunque contiene soltanto ciò che ci abbiamo messo dentro noi.

Ogni tanto provo a installare un nuovo pacchetto, e la Macchina si lamenta di conflitti e di dipendenze insoddisfatte:

# aptitude install special-relativity
I seguenti pacchetti NUOVI (NEW) saranno installati:
  special-relativity{b}
0 pacchetti aggiornati, 1 installati, 0 da rimuovere e 0 non aggiornati.
È necessario prelevare 18.5 B/18.5 MB di archivi. Dopo l'estrazione, verranno occupati 45.8 MB.
I seguenti pacchetti hanno dipendenze non soddisfatte:
  special-relativity: Va in conflitto: galilean-relativity ma 1:2.8.2 è installato.
  special-relativity: Va in conflitto: libsimultaneity ma 0.9.0+dsfg1-2 è installato.
  galilean-relativity: Va in conflitto: special-relativity ma 1:3.0.1 sta per essere installato.
Le seguenti azioni permetteranno di soddisfare queste dipendenze:

     Rimuovere i seguenti pacchetti:
1)     galilean-relativity
2)     libsimultaneity



Accettare questa soluzione? [Y/n/q/?] Y

Ma la cosa non mi perturba affatto. Ha! Che ingenuità lasciarsi sorprendere dall'effetto tunnel! Che facce da fessi che fanno gli studenti quando parli con la massima disinvoltura del principio di indeterminazione! Ma io non ho paura. Io sono un iniziato.

Poi ho esagerato.


1 Nel corso di un recente sondaggio telefonico, a 631 italiani di età compresa tra i 25 e i 60 anni è stata rivolta la domanda "Lei crede nell'esistenza di elettroni, potenziali vettori e menate varie?". Il 2% ha risposto "sì". Il 3% ha risposto "no". Il 95% ha risposto "eh?". ^

martedì 6 aprile 2010

Sul valore pedagogico dello scappellotto

Si era a Pavigi, qualche tempo fa. Chi ha camminato un po' per questa città raramente dimentica la scoperta del Beaubourg, un'esperienza a metà tra la scena finale di un film senza limiti di budget girato da David Lynch sotto acido e la vista di una mandria pazza di elefanti africani inferociti lanciati a 50 km/h nella direzione sbagliata. (Altro che vignette di Kroll sulla stazione di Liegi). Il comune ha istituito un ambulatorio in piazza per soccorrere i turisti che credevano di essere nel centro di Pavigi e cadono preda di improvvise convulsioni epilettiche, con tanto di schiuma alla bocca (almeno è quello che è successo a me). Generalmente comunque ci si riprende in fretta e ci si accorge che l'edificio ospita regolarmente esposizioni di arte moderna.

Quella volta che si era a Pavigi, era il turno di una completissima retrospettiva sul noto pittore contemporaneo Pierre Soulages. Sirvana mi propone di andare a visitare la mostra. Dodici euro, dice. Non è tantissimo, dico io, vabbè, facciamolo. Poi Sirvana mi spiega che li dovevo dare io a loro, i dodici euro, e allora le prometto di documentarmi un po' sull'Artista [sic] prima di decidere.

Non è certo necessario ricordare ai miei lettori chi è Pierre Soulages. Ecco alcune delle opere più celebri del suo primo periodo:

Ops, chiedo scusa. Le ho pubblicate sottosopra.

La vigorosa cromaticità dell'Artista [sic] già mi impressiona favorevolmente. Cerco il video di presentazione della mostra

e rimango colpito dal seguente frammento (3:02):

Et puis, en 1979, comme toujours chez un Artiste, il y a des moments d'interrogation, de doute. Un beau jour, une belle nuit, il est face à une peinture qu'il n'arrive pas à terminer. Il est embarrassé dans cette peinture noire, dont il ne sort, semble-t-il, pas grande chose.E poi, nel 1979, come capita sempre a un Artista [sic], ci sono dei momenti di messa in discussione, di dubbio. Un bel giorno, una bella notte, [Soulages] si trova di fronte una tela che non riesce a terminare. È a disagio con questo quadro nero, dal quale non gli sembra di riuscire a trarre granché.

Et c'est là où il va s'apercevoir qu'il a au fond ouvert une nouvelle voie, qu'il va intituler « l'outre-noir » et qui consiste à recouvrir la totalité de la surface d'un seul noir.Ed ecco che si rende conto di aver in effetti aperto una nuova via, che intitolerà "l'oltre-nero" e che consiste nel ricoprire la totalità della superficie di un solo nero.

Come restare insensibili di fronte a una poetica di cotanta profondità! Assorto nella contemplazione insistita dell'oltre-nero, il mio spirito si immagina perso in una notte di maggio profumata, nei vicoli di una città del Mediterraneo, seduto a tavola con Gennaro Soulages e il suo amico Ciro. Gennaro Soulages spiega che c'è una tela che non riesce proprio a terminare. L'ha dipinta per metà di nero, e per l'altra metà l'ha lasciata bianca, come ha fatto per decenni. Ma stasera... qualcosa non va. Nel suo atelier di vico della Tofa, gli sembrava che la tela lo fissasse con gli occhi delle pennellate nere da lui tracciate, e in quelle pupille lineiformi si perdeva la sua ispirazione. Dopo ore di lavoro frustrante, Gennaro Soulages getta a terra con rabbia lo strumento (così egli chiama i pezzi di cartone che usa per dipingere) e esce in strada, in maniche di camicia per il sudore della concentrazione. È una notte senza luna e silenziosa, tranne per un pianoforte che suona lontanamente. Gennaro Soulages è solo nel buio del vicolo e vede le stelle fisse, piccoli buchi che sembrano prendersi gioco di lui ammiccando attraverso il velluto nero della volta celeste. È l'attimo che attendeva: Gennaro Soulages capisce cosa manca alla sua Arte: da quel momento, la tela nera e bianca è soltanto passato, non ha più senso tornare a dipingere come prima! In preda a un'eccitazione febbrile, Gennaro corre a casa del suo amico Ciro, lo tira giù dal letto e lo inchioda alla sedia impagliata della sala da pranzo con il racconto in crescendo della sua ispirazione!

Certo, è soltanto un salto mortale della mia immaginazione. Se fossi Erri de Luca, direi qualche fesseria tipo che se Pierre Soulages fosse stato il napoletano Gennaro Soulages, non sarebbe mai giunto all'oltre-nero, non sarebbe riuscito a dipingere nemmeno una sola tela bianca e nera; perché a Napoli non c'è nulla di bianco o nero, ed è impossibile ignorare i colori. Più realisticamente, mi tocca osservare che se veramente Gennaro Soulages avesse tirato giù dal letto per questa storia il suo amico Ciro, costui lo avrebbe gonfiato di mazzate e avrebbe aperto un innovativo filone di epiteti combinando il prefisso "oltre-" alle dubbie qualità morali della madre di Gennaro. Ancora più realisticamente, sono sicuro che Gennaro Soulages non sarebbe mai giunto a realizzare una tela bianca e nera, perché non sarebbe riuscito a parlarne a nessuno senza rimediare uno scappellotto. Un personaggio che pensa a dipingere tele bianche e nere; che, dopo quarant'anni di ricerca intensa, capisce che deve dipingerle interamente nere; se fosse cresciuto a Napoli, saje quanta bbuffi. Napoli forse non avrà mai il suo Soulages; ma sono grato a questa città per tutti gli scappellotti che mi ha generosamente elargito per mano dei miei compagni di scuola, senza i quali sarei ancora meno sveglio di quanto non sia oggi.

lunedì 2 novembre 2009

La cacca calpestata

Il signor Palomar ha pestato una cacca di cane. È in una strada della sua città ed è piuttosto irritato, non perché non gli sia già capitata la stessa cosa, ma soprattutto perché proprio quel mattino ha indossato le scarpe di tela con la suola di gomma tutta fitta di scanalature a spina di pesce. Benché il signor Palomar solitamente non indulga in comportamenti violenti e si consideri un tipo tollerante e rispettoso degli animali (non lo si potrebbe definire un amante degli animali: per amare gli animali è necessaria prima una certa misura di odio per gli uomini, e il signor Palomar non se la sentirebbe davvero di condannarli tutti senza averli prima conosciuti ed ascoltato le loro ragioni), in questo momento si guarda dintorno rabbioso come se cercasse il responsabile del suo incidente per consumare una vendetta immediata. Al signor Palomar viene in mente che questi maledetti cagnacci scagazzatori astenosfinterici andrebbero esiliati tutti su un'isola deserta a un centinaio di miglia dalla terraferma dove sianerebbero liberi di divorarsi a vicenda e di seppellirsi nei propri escrementi senza attentare alla pulizia delle suole dei cittadini.

Lo scatto di rabbia tuttavia non dura più di qualche attimo e il signor Palomar ritrova la calma. Non può certo incolpare un animale di aver espletato una delle sue funzioni organiche. Certo, il cane insozza la proprietà pubblica; ma come si potrebbe rimproverarglielo, se non gli si riconosce prima il diritto di partecipare alla sua gestione? Il signor Palomar intuisce che la cosa "pubblica" proprio pubblica non è. Molti dei numerosi abitanti della città sono esclusi dalla sua gestione e dunque esentati dal rispetto dovutole: cani, gatti, piccioni, ratti e insetti vari, per cominciare. Giuridicamente equiparabili ai bambini, i cani non rispondono dei propri atti davanti al consorzio civile: dovrebbero essere i loro padroni a farlo per loro. Il signor Palomar davvero non sopporta le persone incivili. Maledetti imbrattatori dell'arredo urbano, pensa con rinnovato furore, incapaci di sorvegliare la copropoiesi dei propri animali da compagnia o, peggio, avallatori negligenti di comportamenti antisociali. Hai permesso al cane di fare la cacca per strada? Hai ritenuto superfluo insegnargli dove può fare cacca e dove no? Oh, bisognerebbe esiliarli tutti su uno scoglio disabitato con i loro cani. Ti faccio vedere allora come farebbero attenzione a non tappezzarne di feci l'intera superficie.

Proprio quando il signor Palomar è all'apice della sua collera, d'improvviso rimane folgorato da un pensiero. Se i cani sono socialmente equiparabili ai bambini — perché la persona responsabile della loro educazione risponde anche giuridicamente della loro condotta —, lo stesso vale per i padroni dei cani stessi, i quali, tempo fa, sono stati bambini. Il signor Palomar non può condannare la loro inciviltà senza accusare i loro genitori, veri responsabili della loro mala creanza. Ma i genitori a loro volta potranno fare appello allo stesso cavillo e scaricare la colpa sui nonni... il signor Palomar si lascia aspirare vertiginosamente dalle migliaia di generazioni della storia dell'umanità fino al signor Adamo Y-cromosomale, fino alla signora Eva Mitocondriale e fino al loro peccato originale.

Il signor Palomar è un po' infastidito dalla sua conclusione — la dimostrazione dell'esistenza di un peccato originale — e subito si industria per confutare la sua teoria. Il suo ragionamento deve contenere una fallacia; ecco, dev'essere semplicemente falso che genitori maleducati generano sistematicamente figli altrettanto maleducati. Ma certo! Palomar si batte la fronte per essersi lasciato tentare dal determinismo. Anche se i miei geni plasmano la mia materia, se l'ambiente in cui vivo modifica il mio fenotipo e se le mie nevrosi tramano contro la mia autodeterminazione, io resto libero di comportarmi diversamente da mia madre e mio padre. Il signor Palomar sorride all'idea di essere stato costretto a introdurre il libero arbitrio non già per spiegare l'esistenza del peccato originale, ma anzi per dimostrare che si tratta di una historically unnecessary hypothesis.

Ma ahimè, il suo sorriso dura ben poco. Se Adamo ed Eva erano liberi, così erano i loro figli, così i loro nipoti — il signor Palomar ridiscende a precipizio le quattromila generazioni che li separano dal padrone del cane e non può più impedirsi di riconoscergli la libertà di scegliere se lasciare la cacca sul marciapiede o chinarsi a raccoglierla. Ma se quell'uomo godeva di libero arbitrio, forse che il suo cane era da meno? Il signor P. cammina trasognato, assorbito dalla riscoperta della dialettica tra libertà e responsabilità, e non si accorge della nuova cacca che sta per calpestare con l'altro piede.

sabato 25 luglio 2009

Fugerit invida aestas

Arles, ventisei giugno

Caro Teo,

Il portalettere mi ha lasciato stamane la tua ultima affettuosa missiva. Che buon uomo, monsieur Roulin; sarà passato sul presto come sua abitudine, mi avrà visto lungo disteso sul canapè del portico e avrà indovinato dalla regolare profondità dei miei respiri che navigavo ancora nel primo sonno. Immagino (e quasi lo vedo!) il suo barbone bonario e il sorriso dei suoi favoriti sempre in ordine, il fruscio delicato delle carte deposte sul tavolino di vimini e il velocipede di servizio che si allontana crepitando sullo sterrato.

Caro Teo, la coperta rossa che mi hai inviato mi racconta quanto sei preoccupato per la mia condizione. So che disapprovi la mia condotta insalubre e queste nottate all'addiaccio, ma lo zefiro provenzale è dolce e profumato e la mia cagionevole salute non corre seri rischi; la novella estate mi schiude le palpebre quando il sole è già alto e mi rivela la campagna che freme come un unico alveare, il profumo della lavanda e il riverbero abbacinante del cielo di Provenza sulle mura gialle della casa.

Ti ringrazio di cuore di tutte le pene che ti dai per me. Ero già al corrente del concorso all'accademia di polizia (me ne aveva parlato Arturo), ma non so se parteciperò. Teo, sto morendo. L'ho scoperto sei mesi fa. Me l'ha confermato anche il dottor Gachet, anche se cercava di sdrammatizzare e di convincermi che in fondo potrei essere messo peggio. Ma so per certo che mi restano meno di ottant'anni di vita.

Vedi, Teo, quando ero fanciullo non percepivo i limiti della mia esistenza. Avevo troppo poco passato per immaginare che il futuro esistesse, e il presente si dilatava fino a diventare un unico infinito pomeriggio. Ma esistono due tempi, amato fratello. Uno, chiamiamolo "tempo reale", è il tempo dei pendoli, del moto dei pianeti, della cottura del pane, dei fenomeni fisici, oggettivi, osservabili e riproducibili; l'altro, chiamiamolo "tempo apparente", misura la durata percepita da un essere senziente. La durata apparente di un certo fenomeno dipende naturalmente dallo stato psicofisico in cui il soggetto si trova durante il fenomeno; ma al di là di queste fluttuazioni locali possiamo immaginare un'evoluzione globale della percezione temporale con l'età dell'individuo (ovvero con il tempo reale). Sia t il tempo reale e τ il tempo apparente; a un dato istante t della mia vita, poniamo che la durata apparente di un fenomeno campione sia λ(t) volte la sua durata reale:

dτ = λ(t) dt

Nel mio caso, credo che l'andamento di λ(t) sia pressappoco il seguente:

Ora supponi per semplicità che, per un certo intervallo di t (ad esempio t > 30 anni), λ(t) sia semplicemente inversamente proporzionale a t:

λ(t) ∝ t-1

Ne segue che

τ = ∫λ(t)dt ∼ ln t

e dunque

t ∼ eτ

Ecco la misura oggettiva della fugacità del tempo. Ecco il regolo della caducità del mio essere frale. Credevo che il mio tempo apparente τ scorresse lineare, sempre uguale a sé stesso, e che in fondo rappresentasse una buona approssimazione del tempo reale t. Ma mentre la tartaruga τ muove un passo, Achille t ne fa tre; e mentre la tartaruga ne avanza un altro, Achille ne ha allungati altri sei. Forse la morte è soltanto questo, l'infinito rallentamento della percezione. Forse λ(t) raggiunge lo zero in un tempo finito; il mio cronometro apparente si blocca mentre il mondo intorno continua a ticchettare. Forse sono immortale ed è solo l'accelerazione apparente della mia percezione che mi illude di morire. Lo stesso metronomo della mia vita,

λ(t)-1 ∝ t

accelera minaccioso secondo la percezione che ne ho:

λ(τ)-1 ∝ eτ

Ecco perché veglio ogni notte e freneticamente respingo la stanchezza. Non ho letto Proust. Non conosco il greco antico. Non so come si fabbrica la carta. Non conosco la storia del mio Paese. Non conosco il nome della capitale dello Yemen. Non parlo portoghese. Non so come si vesta la gente del Botswana. Non so cucinare la bagnacauda. Non so suonare uno strumento musicale. Non ho mai ascoltato Brahms. Non so da dove viene la massa del protone. Non so leggere l'alfabeto cirillico. E quante sono le cose che non so nemmeno di ignorare? Non ho tempo. Sfilo un altro libro vergine dalla pila alla mia sinistra. Prima che riuscirò a immaginare il domani, questo meriggio fu già passato in fretta.

Il tuo affezionato fratello,                     

Vincenzo Tenebra