mercoledì 16 gennaio 2008

Abiura di Galileo

Sullo spunto dei recenti fatti di cronaca, pubblico una rivisitazione lirica dell'abiura di Galileo Galilei ad opera di Piergiorgio Odifreddi, matematico e scrittore.

Oggi, mercoledì 22 giugno 1633, io Galileo Galilei, figlio di Vincenzo, di anni settanta, sono costituito personalmente in giudizio nella gran sala del convento di Santa Maria sopra Minerva in Roma. Vesto il camice bianco dei penitenti, e sto inginocchiato davanti a Voi, Eminentissimi e Reverendissimi Cardinali, inquisitori generali della Repubblica Cristiana contro l'eretica malvagità. Ho davanti agli occhi i Sacrosanti Vangeli, che tocco con le mie proprie mani, e giuro che ho sempre creduto, credo adesso, e con l'aiuto di Dio crederò per l'avvenire, tutto ciò che predica e insegna la Santa Cattolica e Apostolica Chiesa.

Sono stato denunciato nel 1615 a questo Santo Uffizio per aver tenuto per vera e insegnata la dottrina che il Sole stia immobile al centro del mondo, e che la Terra si muova di moto diurno, in opposizione alle Sacre e Divine Scritture che affermano che Giosuè fermò il Sole. Il 26 febbraio 1616 l'Eminentissimo Cardinal Bellarmino mi ha ordinato di abbandonare questa falsa opinione e di non insegnarla, e in sua presenza il Padre Commissario del Santo Uffizio mi ha benignamente avvisato e ammonito che altrimenti sarei stato incarcerato.

Contrariamente al salutifero editto allora emanato dalla Sacra Congregazione dell'Indice, che proibiva i libri che trattano di questa falsa dottrina, io ho pubblicato lo scorso anno un "Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo", nel quale mi studio, con vari raggiri, di persuadere che il sistema copernicano sia indeciso e addirittura probabile. Confesso di aver scritto il libro in volgare e in forma dialogica, perché ogni persona potesse leggerlo e sapere che il Signor Dio, come gli ha dato gli occhi per vedere le opere Sue, gli ha anche dato il cervello per poterle capire.

Per aver tenuto e difeso per probabile un'opinione dichiarata contraria alla Sacra Scrittura, sono incorso nelle censure e pene dei Sacri Canoni e delle altre Costituzioni Generali e Particolari promulgate contro i delinquenti, ma il Santo Uffizio mi ha offerto l'assoluzione a patto che, a cuor sincero e con fede non finta, abiuri, maledica e detesti i suddetti errori ed eresie, e accetti come punizione la recita settimanale per tre anni dei Salmi penitenziali, gli arresti domiciliari a vita, e la proibizione perpetua del mio libro.

E io, Galileo Galilei, volendo levare dalla mente delle Eminenze Vostre e di ogni fedele cristiano il sospetto su di me giustamente concepito, con cuore sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto i suddetti errori ed eresie, accetto le punizioni giustamente inflittemi, e giuro che per l'avvenire non dirò o asserirò mai più, a voce o per scritto, cose sospette, e che denuncerò chiunque lo faccia. Ma sono conscio che, col mio collaborazionismo, tradisco la mia professione e commetto il peccato originale della nuova scienza, che più di ogni altro ho contribuito a far nascere.

Perché oggi sono inginocchiato di fronte a voi, Reverendissimi Padri, nella posizione del credente che guarda a terra con gli occhi chiusi. Ma a lungo ho vissuto a testa alta, nella posizione dello scienziato che guarda al cielo con gli occhi aperti. E quante cose ho visto attraverso il cannone, o occhiale, che ho costruito nel 1609, e che la sera del 14 aprile 1611 abbiamo convenuto, a cena sul Gianicolo dall'amico Principe Cesi, di chiamare telescopio! L'Eminentissimo Cardinal Bellarmino lo sapeva, perché non rifiutò, come altri, di guardarci dentro, per paura di vedere i monti e le valli della Luna, le fasi di Venere, i satelliti di Giove, le anomalie di Saturno, la rotazione e le macchie del Sole, le stelle delle Costellazioni e la Via Lattea.

Lo sapeva, e avrebbe dovuto gioire di questa mirabile compagine del Sole, dei pianeti e delle comete, che non avrebbe potuto essere senza consiglio e volere di un Ente intelligentissimo e potente. Un Ente che regge il tutto, non come Anima del mondo, ma come Signore di tutte le cose. Un Ente che dura sempre ed è presente ovunque, ed esistendo sempre ed ovunque, costituisce la durata e lo spazio, il tempo e l'infinità.

Un Ente che non ha corpo, né forma, cosicché noi non lo possiamo vedere, né toccare, né intendere. Un Ente che non dobbiamo assolutamente adorare sotto forme sensibili, come già ordina un Suo proprio comandamento, che la nostra Santa Madre Chiesa ha invece scelto di ignorare.

Così come hanno scelto di acquistare tutte le cognizioni della natura, agiatamente e senza esporsi alle ingiurie dell'aria, col solo rivoltare poche carte, i teologi e i filosofi "in libris", ritirati in studio a scartabellare indici e repertori per scrivere ciò di cui non intendono, così che non s'intende ciò che essi scrivono. E usurpano le Sacre Scritture e le opere dello Stagirita, perché è più facile coprirsi sotto lo scudo di un altro, che il comparire a faccia aperta. Ah, viltà d'ingegni servili, e vana presunzione di intendere il tutto, che non può che derivare dal non aver inteso mai nulla!

Calatevi per una volta dal trono della maestà biblica e peripatetica, per discutere intorno al mondo sensibile, e non sopra mondi di carta! Aprite la mente alle ragioni sottilissime, e perciò difficili a essere comprese, invece di rimaner persuasi dalla vana apparenza della falsità. Apprendete le scienze matematiche, che uguagliano la divina cognizione nella certezza obiettiva, perché arrivano a comprendere la necessità. Smettete di dimostrare solennemente "ignotum per ignotius", e ricordate che affinché i calcoli tornino sullo zucchero e sulla seta, bisogna fare la tara della cassa e dell'involucro.

Imparate, dalla mia antica lettera a Sua Altezza Serenissima Madama Cristina di Lorena, Granduchessa di Toscana, che sebbene la Scrittura non può errare, possono nondimeno errare alcuni suoi interpreti ed espositori, che si fermano al puro significato delle parole. Perché nel mondano sistema tolemaico, se Giosuè avesse fermato il moto del Sole, avrebbe accorciato e fatto più breve il giorno, mentre per allungarlo avrebbe dovuto fermare il Primo Mobile! È nel "mio" sistema, invece, che per allungare il giorno avrebbe dovuto fermare il Sole, e dunque la Terra alla quale esso dà non soltanto la luce, ma anche il moto.

Quella lettera fu il mio primo errore, basato sull'illusione che i rapporti fra la nuova scienza e la vecchia fede potessero essere regolati sulla base di ciò che avevo appreso dall'Eminentissimo Cardinal Baronio: che l'intenzione dello Spirito Santo è di insegnarci come si vada al cielo, e non come vada il cielo. Il mio ultimo errore fu l'aver ceduto alle richieste del Maestro del Sacro Palazzo, concludendo il libro con la mirabile e angelica dottrina del Santissimo Padre, Nostro Signore Urbano VIII: che Dio avrebbe potuto e saputo disporre diversamente gli orbi e le stelle in modo da salvare i fenomeni, perché la possibilità che le cose accadano altrimenti da quanto la scienza ha escogitato, non implica contraddizione.

La stessa dottrina, che la scienza sia ipotetica e non assoluta, fu usata nell'apocrifa "Epistola preliminare" all'opera di Niccolò Copernico. Ma giustamente Giordano Bruno chiamò "asino ignorante e presuntuoso" chi ve la attaccò, perché dove non arrivano le ipotesi matematiche, meno ancora arriveranno le puerizie scurrili e le scempie inezie. Ingiustamente invece io abiuro, perché concedendo oggi ai Reverendissimi Padri che Iddio ha fatto l'universo più proporzionato alla piccola capacità del loro cervello, che all'immensa e infinita Sua potenza, stabilisco un esempio che altri scienziati ignavi potranno seguire domani e sempre.

Ho creduto di poter salvare la fede, benché fossi un pubblico peccatore, padre di due figlie illegittime che ho costretto a farsi suore dopo averne ripudiato la madre, mia concubina. Ma ho finito per condannare la scienza, benché fossi il suo pubblico difensore, inventore del suo metodo e scopritore delle sue prime leggi. Delle mie opere giudicherà il Tribunale della Ragione, e io non avrò mai per male che mi si palesino i veri errori che ho commesso, a partire dalla teoria delle maree.

Della mia abiura giudicherà invece il Tribunale della Storia. L'ho compiuta per vigliacca paura delle macchine che mi avete mostrato, e della spada che sottomise lo spirito superbo del Nolano. Il Martire sarà ricordato nei secoli da chi ha a cuore la verità, il suo Eminentissimo Boia sarà santificato da chi l'ha calpestata, ma per me non ci saranno che rimpianti, e il mesto ricordo di un'occasione perduta. L'intelligenza, voi che non l'avete, non ve la potete dare. Ma io, il coraggio, neppure.

Piergiorgio Odifreddi
Il matematico impertinente (2005)

Nessuno si è ancora degnato di interloquire a proposito.