mercoledì 10 maggio 2006

La chiamata / 2

— Cosa fai qui? — chiese Bemolle.
L'uomo annuì con condiscendenza, protese le labbra con l'aria di chi avrebbe troppe cose da raccontare ma non il tempo per farlo e infine indicò lo scubidù, seguito dallo sguardo di Bemolle.
— Uno scubidù qui? Davanti alla mia tenda? Ah, aspetta... mi pare di riconoscerti! Ci siamo incontrati alla manifestazione della settimana scorsa, no? Mi devi scusare ma non ricordo il tuo nome... com'era, com'era?

La voce dell'uomo aveva qualcosa di ancestrale.
— Io ho molti nomi. Sono qui perché anche tu possa finalmente averne uno.

Bemolle tremò, per la seconda volta nel corso della serata. Aveva la spiacevole sensazione che la voce dell'uomo non fosse un suono, ma che risuonasse direttamente nella sua mente, senza dover passare la tediosa trafila laringe -> vibrazione -> onda -> timpano -> orecchio interno -> cervello. Per quanto la cosa potesse sembrare comoda, Bemolle era un tradizionalista. La novità della cosa lo metteva visibilmente a disagio.
— Ma io ce l'ho già un nome... Mi chiamo Bemolle. — fece con voce tremante, protendendo perfino timidamente la destra verso lo sconosciuto — Immaginavo che non te ne ricordassi neanche tu, d'altra parte ci siamo a stento presentati...
— Caro il mio Bemoccolo, ti parlo di un nome che ti sopravviverà. Un nome antico come i deserti e mutevole come le nuvole, un nome che ti scorrerà addosso e ti impregnerà con la sua immanenza — e poi, dopo una pausa a effetto, aggiunse — Un nome da profeta.
— Un profeta... io?
— Tu sei stato scelto.
Bemolle cadde in ginocchio. Le lacrime sgorgavano copiose.
— Ma chi sei?... chi sei?
— Sono venuto per portarti via. Io sono il Kwisatz.

Questa gibella è stata pubblicata anche su La mandria pazza (cos'è?).

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