Fu negli anni della prima maturità che il tenente Tenebra si accorse per la prima volta delle diserzioni dei suoi colleghi. Dapprincipio non vedeva alcuna sistematicità nei casi che gli si presentavano e che la sua interpretazione del reale manteneva scorrelati e isolati. Si diceva che a tutti dovevano capitare delle esperienze del genere dopo alcuni anni di carriera; con tutti i giovani poliziotti che Tenebra conosceva e con i quali era cresciuto, era pur normale che tra di essi ci fosse qualcuno che aveva perso la vocazione o che scopriva tardivamente di non averla mai avuta: era una questione di statistica di Poisson, e Tenebra corroborava la sua tesi approfittando di dati ministeriali e delle reminiscenze di matematica di base dai tempi dell'accademia.
Ma le defezioni diventavano sempre più frequenti con gli avanzamenti di carriera: i capitani disertavano più dei tenenti, i tenenti più dei marescialli e i marescialli più dei sergenti. Ben presto l'anzianità di servizio di Tenebra gli rese impossibile continuare a ignorare l'evidenza delle cose. Quando anche uno dei suoi compagni di accademia, uno dei suoi amici più cari, voltò le spalle alla giustizia, il tenente ne fu toccato profondamente. Con amarezza ammise che le coincidenze esistono soltanto nella vita degli altri e improvvisamente si accorse che la differenza tra capire e conoscere lo costringeva a riconoscere la causa del ricorrere delle diserzioni.
Il contatto prolungato con il crimine ci corrompe, scriveva nelle sue memorie un Tenebra intriso di echi nietzscheani, più a lungo combattiamo il male, più siamo costretti a metterci in gioco. Impariamo a conoscere il nostro nemico, gli diamo un volto e una voce, riconosciamo il suono dei passi, le movenze abituali, i difetti e gli errori. Alcuni si illudono di poter commettere il crimine perfetto, di aver imparato tutto dai propri avversari e si lasciano trascinare dalla velleità dell'emulazione; ma non si tratta che di pochi casi isolati. La maggior parte dei disertori sono persone integerrime. La lotta al male li assorbe completamente e li circonda di malviventi, assassini e canaglie di ogni specie. Il crimine diventa parte della loro vita. Ho notato che per molti la caduta non ha un vero e proprio inizio ma evolve in maniera continua, dai favori fatti agli informatori alle indulgenze promesse ai pesci piccoli; e dall'indulgenza si scivola inconsapevolmente nella complicità. Dal momento in cui il crimine assume la forma umana del nostro compagno, come possiamo continuare a combatterlo? Un principio non vale un'amicizia.
Qual è il vero tradimento? Quello verso i princìpi o quello verso le persone che amiamo?
Questa è una domanda alla quale credevo di saper rispondere, ma ora inizio a dubitarne. Ho paura di continuare la mia guerra, ho paura di perderci me stesso; eppure devo scegliere. La domanda mi si pone oggi con una perentorietà senza precedenti, direi quasi con violenza; ma qualunque cosa scelga, ne soffrirò. Forse potrei cedere di un'unghia per avvicinarmi ai miei colleghi, cercare di capirli meglio, e forse finirei anche per trarne beneficio nella mia lotta contro il crimine; ma lo vivrei come un tradimento verso la Giustizia. E non ho forse già ceduto innumerevoli volte?
No. Non posso permettermi altre debolezze. Non so se sarò in grado di resistere per sempre, ma un abbandono è tanto più colpevole quanto più tardi esso avviene, perché siamo sempre di meno a condividere la responsabilità della lotta al male ogni giorno che passa. La guerra deve continuare, e io devo continuare a combattere. Combatterò.
Solo.